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Dunkirk è già un classico hollywoodiano

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dunkirk

1.

Christopher Nolan è ormai da quasi un decennio (per la precisione dal 2008, quando ha inventato il cinecomic d’autore e girato il miglior action/thriller à la Michael Mann del nuovo millennio, tutto in un solo film, Il Cavaliere Oscuro) quel genere di mostro sacro che può permettersi di fare ad ogni film cose che normalmente farebbero scappare a gambe levate spettatori e produttori, tipo creare multimondi talmente complessi e formalizzati che praticamente richiedono allo spettatore di entrare in sala con un blocchetto per gli appunti, oppure adescare il pubblico con McConaughey/Hathaway nello spazio e poi rifilargli tre ore di meditazioni non troppo filtrate su tempo, morte e libero arbitrio, continuando però a sbancare il botteghino ed estasiare i critici con la puntualità di un orologio svizzero.

Il progetto Dunkirk però è forse ancora più ambizioso dei precedenti: resuscitare un genere agonizzante come il cinema di guerra, ormai ampiamente fagocitato, masticato e risputato in forma asettica dalla cultura di massa, che ha delocalizzato l’exploitation della nostra attrazione per la violenza nella galassia lontana lontana di Star Wars: Rogue One o nel fantasy porno-sadico di Game of Thrones, in modo da poter celebrare eroismo, cameratismo e sacrificio a distanza di sicurezza dalla tragedie della storia. Un processo innescato paradossalmente proprio dalla stagione apicale del Vietnam, che ha minato i fondamenti morali del genere con la sua carica militante e l’urgenza di mostrare la guerra come cuore di tenebra dell’umanità.

Già dai trailer e dalle preview Nolan ha puntato tutto o quasi sul sense of wonder, sul ritorno alla radicalità cinematografica, sull’idea del giocattolone arty girato in modo così figo e in un formato così enorme da farti provare la sensazione immersiva di quando da bambino giocavi alla guerra, da farti riscoprire perché esci di casa per andare al cinema e paghi il biglietto invece di aspettare che il film esca in rete e guardartelo in mutande col computer sulle ginocchia.

Per riportare l’entertainment bellico dentro il recinto della ricostruzione storica la scelta è logicamente ricaduta su un episodio eroico relativamente non controverso e della seconda guerra mondiale, ovvero la grande fuga attraverso la Manica – grazie anche all’aiuto di imbarcazioni civili partite volontariamente dalla costa opposta – di quasi mezzo milione di soldati inglesi nel 1940.

Dunkirk è dunque un film che parla di sopravvivenza, nel quale i protagonisti cercano di compiere il loro dovere ma non hanno alcun desiderio di morire o di corteggiare la morte. In questo senso, pur senza ripetere la lezione del cinema pacifista degli anni Settanta e Ottanta, è senza dubbio un film antimilitarista.

2.

La prima scena di Dunkirk, come d’abitudine per Nolan, è una specie di scintillante cortometraggio a sé stante nel quale vengono prefigurati i temi del film: sei giovani soldati inglesi si aggirano per le strade spettrali di Dunkerque, e improvvisamente vengono avvolti da una pioggia di foglietti di carta che volteggiano nell’aria come fiocchi di neve. Sono volantini tedeschi che li invitano ad arrendersi, mostrando loro su una mappa quanto sia disperata la loro situazione di isolamento.

È un momento di grande sintesi visiva, che in poche immagini completa il senso di claustrofobia ostruendo ai protagonisti l’ultima dimensione di fuga concepibile – quella aerea – e presenta il baricentro concettuale del film, ovvero che la condizione dell’assediato è definita dalla consapevolezza dell’assedio.

3.

Terra, mare e cielo definiscono i tre atti in cui il film è diviso: tre soldati cercano di scappare dalla spiaggia, tre civili partono in battello dalla costa inglese per portare aiuto, tre aviatori a bordo dei loro Spitfire devono proteggere l’evacuazione dai raid aerei tedeschi. Nonostante il montaggio alternato dia l’impressione che  corrano in parallelo, il racconto di terra si svolge in una settimana, quello di mare in un giorno e quello d’aria in un’ora.

Nolan fa di tutto per imprimere ai 100 minuti di lotte di sopravvivenza di Dunkirk una risonanza universale. Per questo sceglie di non mostrare mai il nemico, di dare per scontato il contesto storico al di là di un paio di stringati cartelli esplicativi iniziali, e di ridurre i dialoghi al minimo indispensabile, tanto che per lunghi tratti Dunkirk è di fatto un film muto.

Le vicende narrate sono individuali, ma per quanto possibile spersonalizzate. Incontriamo i personaggi nel mezzo dell’azione senza che ci vengano fornite informazioni su di loro, e nemmeno agli attori più noti (Harry Styles nei panni di uno dei soldati, Kenneth Branagh in quelli del Comandante Bolton, Tom Hardy che fa l’aviatore recitando ancora una volta a viso coperto per Nolan) viene concesso il minimo spazio istrionico, a ribadire che stiamo seguendo tre storie qualsiasi tra le migliaia che potevano essere raccontate.  Perfino la scelta di girare il film in un formato mostruosamente grande e dettagliato come l’Imax sembra rispondere, più che ad aspirazioni di titanismo cinematografico, alla medesima volontà di annacquare le vicende individuali nella tragedia collettiva.

Nolan lavora col bilancino nel mescolare un’estetica realista e antiretorica – i soldati sono impacciati, i fucili e le spie del carburante si inceppano, gli attacchi tedeschi sono girati come calamità naturali che spazzano via insieme ai corpi ogni possibile attribuzione di significato – con elementi eroici e addirittura epici.

Il senso morale delle azioni dei protagonisti è sottolineato, e la natura eroica della loro resistenza è apertamente rivendicata. La battuta chiave in questo senso arriva verso la fine del film, quando un anziano si complimenta con uno dei soldati superstiti e quello gli risponde: “Non abbiamo fatto altro che sopravvivere”.

“È abbastanza” risponde l’anziano.

4.

Apparentemente eteroclito rispetto alla filmografia dell’autore, Dunkirk è in realtà un film assolutamente nolaniano, se con questo termine ci riferiamo alla fissazione per la dimensione del tempo, e per il modo in cui lo percepiamo. I film di Nolan esplorano spesso circostanze in cui la nostra tendenza a dimenticarci del tempo è messa in crisi, perché i protagonisti hanno facoltà alterate (Memento) o perché si spostano nel tempo in modo non lineare (Interstellar e in modo indiretto Inception). In termini cinematografici, la manipolazione del tempo è fatalmente diventata una riflessione sul linguaggio (il cinema narrativo in fondo è un esercizio complesso di alterazione del tempo che produce però l’illusione della linearità) che è stata un elemento determinante nel fare di Nolan un regista di culto tra gli appassionati, nonostante gli artifici che talvolta impacciano le sue sceneggiature e le scelte di carriera non strettamente autoriali.

La vicenda dell’operazione Dynamo, con la contrazione del tempo palpabile quanto quella dello spazio, si presta perfettamente a proseguire questo discorso.

Prende così senso anche l’impianto fortemente coreografico della prima parte del film, che poi viene smorzato col passare dei minuti. Le linee parallele che Nolan traccia nelle sue inquadrature tra terra e mare e tra mare e cielo, quelle perpendicolari dei moli e dei soldati in fila davanti al nulla, non servono soltanto a comporre immagini molto suggestive, ma rispondono anche alla scelta di presentare la spiaggia di Dunkerque come un sistema ordinato ma precario, che rischia collassare sotto la pressione delle truppe tedesche. Ancora una volta il proposito del regista inglese è quello di costringerci a visualizzare i limiti spaziotemporali entro cui si svolge l’azione, e abbattere l’illusione della loro indeterminatezza.

5.

Dunkirk è stato acclamato come il film più lineare della carriera di Nolan, e quindi come una definitiva prova di maturità, ma è anche, ad oggi, il suo esercizio più virtuoso, essendo in realtà concepito come una sequenza di variazioni di un’unica scena madre.

In una successione metonimica di microrappresentazioni dell’evento storico, praticamente tutte le sequenze ritraggono la fuga da una trappola che si sta chiudendo. L’aviatore deve compiere la sua missione mentre il carburante si sta esaurendo, i soldati in fuga devono resistere su una barca spiaggiata fino all’arrivo della marea, il naufrago deve aspettare che la missione di salvataggio sia compiuta prima di essere tratto in salvo.

La maestria del gioco cinematografico di Nolan è quella di riuscire a nascondere la ripetitività dei meccanismi attraverso la ricchezza delle trovate visive e di tecnica del racconto. Una prova di abilità che richiama alla mente un film diversissimo ma anch’esso costruito sulla reiterazione della stessa sequenza – e altrettanto brillantemente riuscito – come Inglorious Bastards di Tarantino.

6.

Non sorprende in questo senso che il regista abbia recentemente dichiarato di aver pensato a lungo di girare il film senza una sceneggiatura. L’idea di fondo è talmente forte da rendere superflui i dialoghi e qualsiasi ulteriore complicazione tematica.

Dunkirk può permettersi la spettacolarizzazione e l’estetizzazione della guerra proprio perché è un film universale che mostra il conflitto con la morte e lo sforzo – letterale, fisico – per respingerla e ricacciarla avanti nel tempo.

Quella occidentale è una cultura della vita, ostile fino alla rimozione all’idea della morte.

Nolan in questo film celebra questa cultura e uno dei più recenti tra i suoi episodi fondativi. Lo fa con inquadrature di bellezza abbagliante, con attori perfetti, con le musiche di Zimmer mai così decisive eppure in grado di scomparire nell’emozione del racconto.

Piaccia o meno il senso dell’operazione, Dunkirk è già un classico hollywoodiano.

Stefano Piri è nato a Genova nel 1984, ha studiato a Torino, da qualche anno vive a Bruxelles dove lavora per i sindacati europei.
Collabora con diverse riviste online tra cui “Pandora” e “L’Ultimo Uomo”.

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